Ultima modifica: 15/06/2021

Fondo in memoria del terremoto del 23 luglio 1930

E chi l’avrebbe immaginato che per Accadia nulla sarebbe stato più come prima?

L’estate del 1930 stava percorrendo la sua strada di sempre, segnando la vita delle persone con i tempi di un mondo rurale fatto di piccole tante certezze. Una di quelle era la trebbiatura. E fu in qualche modo la salvezza di molte vite, perché quella notte molti braccianti e tanti contadini erano in campagna.

Il 23 marzo faceva giorno alle 04.55 e si cominciava a quell’ora a lavorare per evitare il caldo pesante e opprimente che già a metà mattina picchiava duro sulla teste e le spalle degli agricoltori. Questo era una dei motivi per chi poteva permetterselo, perché aveva un ricovero in campagna, o per chi doveva per forza farlo per bisogno che portava molti a dormire fuori Accadia. E fu la loro salvezza.

Nel paese la vita si strappava come al solito. La serata era particolarmente calda e si stentava ad addormentarsi. Diversi erano ancora svegli, qualcuno seduto davanti casa, chi fuori al balconcino o accanto alla finestra, aspettando di appisolarsi più per stanchezza che per sonno.

Era passata da pochi minuti l’una di notte, l’una e 8 per la precisione, quando il terremoto si fece sentire, come solo lui sa fare: subdolamente e quanto meno te l’aspetti. Non riuscirono ad allertare le persone assonnate e semiaddormentate gli improvvisi bagliori che si diffusero per l’aria -quasi ad altezza d’uomo- come lampi, né il fragore che sembrava provocato da un sibilante turbine improvviso e violento di vento, accompagnato da rumori cupi e sordi mai sentiti prima.

Non erano segnali che preannunciavano il terremoto. Loro erano il terremoto. La scossa durò 47 secondi e sconvolse la terra, le case, uomini, donne e bambini. Distrusse progetti di vita; interruppe la storia millenaria di Accadia.

Fu uno schianto sordo e cupo e l’antica Accadia, i Fossi, rovinavano in un doloroso impasto di calcinacci, masserizie, animali e persone. Sul paese si alzò un’acre nube di polvere impenetrabile mentre si interrompeva l’energia elettrica e il paese piombava nelle tenebre più profonde. Non c’era nemmeno la luna in cielo a rischiarare la notte. Quel 23 luglio era all’ultimo quarto e sarebbe sorta solo all’1,37 dando una flebile luce, che non riuscì ad aiutare più di tanto.

Il silenzio nelle tenebre durò un attimo, poi in un crescendo cominciarono a sentirsi solo le urla laceranti dei feriti chiedere aiuto, poi subito dopo le grida dei sopravvissuti chiamare i figli, i genitori, i parenti, gli amici.

Ma nessuno, nessuno ancora aveva presente la dimensione del disastro. La profonda oscurità non permetteva né di capire la gravità della situazione, né di riuscire ad organizzare il soccorso. Era solo il momento di mettersi in salvo e scappare verso la campagna, uscire da quella cappa di polvere che si accompagnava ai sentori di morte e toglieva perfino il respiro. E per chi ancora tentennava fra scappare ed aiutare ci pensò ancora una volta il terremoto che continuò a scuotere il paese per tutta la notte, incutendo altra paura, alimentando altra disperazione, scatenando un senso di impotenza assoluta.

Forse fra i primi ad avvisare il Ministero dell’Intero fu il prefetto di Foggia con un telegramma che inviava alle 2.20 di quella tragica notte. Il terremoto si era fatto sentire anche nel capoluogo con violenza, accompagnato da cupi rombi, per fortuna senza produrre danni e feriti, ma provocando un forte risentimento psicologico sulla popolazione che si era riversata fuori casa. Probabilmente il prefetto avrebbe comunicato la notizia con calma nella mattinata, ma le continue scosse di assestamento e soprattutto le concitate notizie che cominciavano a provenire da Troia e da Ascoli lo convinsero che si trovasse di fronte ad un terremoto abbastanza grave, tanto da decidere alle 5.30 di organizzare un sopralluogo nell’area più colpita e sincerarsi personalmente della situazione.

Di Accadia in prefettura si cominciò a parlare solo nella prima mattina, per conseguire nel giro della giornata il triste primato di località più severamente colpita di tutta la provincia.

I carabinieri della piccola stazione di Accadia, che assicuravano le comunicazioni con la prefettura, dopo un primo comprensibile momento di disorientamento si erano raggruppati davanti alla caserma in attesa del loro comandante che non arrivava. Alla gente che chiedeva aiuto, notizie, consiglio continuavano a raccomandare calma in attesa del comandante, fin quando qualcuno non disse loro che la sua casa era crollata.

Lo estrassero vivo, ma ferito. Curato alla men peggio il maresciallo Onofrio D’Onghia esortò all’estrazione dalle macerie dei feriti, mettendosi anche lui all’opera per salvare una bambina rimasta sotto le macerie. Quella notte non c’era il tempo, né era il momento di fermarsi per cercare di comunicare qualcosa al governo. Ad Accadia era successo l’inimmaginabile e toccava prima di tutto agli accadiesi darsi da fare, senza aspettare altro.

Solo con le prime luci dell’alba fu possibile cominciare a rendersi conto dell’immane sciagura che aveva colpito il paese. La gran parte delle case dei Fossi erano crollate, sgretolate, altre attraversate da profonde spaccature. I superstiti vagavano senza sapere dove, con volti straniati, chiamando gli assenti. Mamme che stringevano i più piccoli e uomini che portavano quelli più grandi per mano si aggiravano fra disorientati animali domestici che, scampati al terremoto, vagavano in tutte le direzioni.

Fu allora che il maresciallo si determinò di telegrafare al prefetto per comunicargli la situazione. Alle 6.30 era chiaro sia a Foggia che a Roma che ad Accadia i danni e i morti erano tanti. Scattava la macchina dei soccorsi  e la prefettura metteva in moto la catena dei soccorsi. Alla fine di quel terribile 23 luglio il dramma di Accadia veniva racchiuso in un breve telegramma: “Questo comune Accadia vittime terremoto trentaquattro, feriti circa cinquecento di cui cento condizioni gravi stop. Case crollate circa cento stop. Resto abitato lesionato notevolmente stop. Provveduto primi soccorsi trasporto feriti Foggia ripristino servizi e da parte Genio Civile in corso verifiche per puntellamento fabbricati pericolanti e ricovero senza tetto stop.”

Nessuno ancora però pensava che da quel giorno il rione Fossi sarebbe diventato uno dei borghi fantasma dell’Italia meridionale. La ricostruzione del 1930, fatta a ritmi serrati non tanto per la gente quando per la propaganda del regime, sarebbe stata dettata da una strategia ricostruttiva del tutto nuova che prevedeva l’abbandono dei centri storici per spostare gli insediamenti su altri siti più o meno vicini a quelli originari.

Ad Accadia accadde lo stesso. E’ pur vero che si pensò ad una sostituzione edilizia radicale del centro storico, con un piano regolatore approvato nel 1935 e mai attuato, perché la propaganda costa poco mentre le realizzazioni costano tanto. E l’Italia all’epoca si stava svenando per l’effimera conquista dell’Etiopia.

Si tentò ancora una volta nel dopoguerra con un altro piano di recupero, approvato nel 1959. Ma quella volta fu un altro terremoto a sancirne la fine. Era quello di Ariano Irpino del 1962 che convinse tutti della impossibilità di far rivivere l’antica Accadia dei Fossi.

La storia di Accadia era definitivamente cambiata.